Tuesday, May 30, 2006

CUCINA POPOLARE ABRUZZESE *** LA CARNE

www.pescaraonline.net
Tra locali tipici e cucina domestica




di Romano Di Bernardo
Il suino *** Tutti gli uomini validi della contrada si riunivano sull'aia della famiglia cui toccava il turno di uccidere il maiale ingrassato con cura durante tutto l'anno. Spesso il peso dell'animale raggiungeva il quintale e anche più ed era uno spettacolo che faceva rabbrividire i bambini presenti e gioire gli uomini e i vecchi mentre il sangue sgorgava copioso dalla ferita aperta nel collo del porco. Quando l'operazione riusciva l'agonia era breve e l'animale non soffriva ma se l'uomo dal lungo coltello (lu scannatore) aveva un attimo di esitazione, il maiale ferito, ma non a morte, impazziva e dando poderosi calci si liberava dal « ceppone » (così si chiamava il banco di legno che serviva per l'esecuzione) e correva disperato di qua e di là finché non veniva ripreso e riportato di peso sul palco del patibolo. Questa volta il taglio dell’artería avveniva sicuramente perché l'uomo che brandiva il lungo e affilato coltello doveva riabilitarsi agli occhi di tutti i presenti. Quando l'arteria era recisa iniziava l'uscita copiosa del sangue, a tratti, dalla larga ferita e le donne si incaricavano di raccogliere il prezioso liquido in recipienti di rame detti « callarí » per poi farne gustose marmellate nere (il sanguinaccio) Così io ricordo l'operazione « de l'accíse di lu porche » che si effettuava dentro la prima decade di gennaio fino a pochi lustri fa, quando la civiltà contadina era ancora sostanzialmente quella del secolo scorso.
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La copertina del primo libro di gastronomia popolare
di Romano Di Bernardo (1977) disegnata dallìAutore
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La carne di suino era in certi casi una fonte di nutrimento di preminente importanza dato che da questo animale si ricavava quasi tutto ciò che poteva servire alla cucina come condimento e come secondo piatto nelle famiglie dove ciò era economicamente possibile. La carne fresca del suino si conservava per parecchi giorni nell'acqua mentre tutto ciò che poteva servire a preparare gli insaccati veniva selezionato, salato o macinato per dar vita a salsicce, sia di fegato che di carne, prosciutti, ventresche, pancette. Col grasso si faceva il lardo o la ventricina che era un impasto di aglio e carne mista al lardo, Oggi queste operazioni si effettuano ancora ma solo in qualche raro casolare di campagna dove esistono certe condizioni socio economiche che ne permettono la sopravvivenza. La mattanza del suino si effettua quasi ovunque con sistemi meno crudeli e più razionali però l'importanza di questo tipo di carne per la gastronomia abruzzese è rimasta inalterata. A parte gli ínsaccati e i prosciutti nostrani che sono ricercati per la loro genuinità, in questi ultimi tempi, forse a causa della crisi economica, la carne di maiale è tornata da regina sulle mense della Regione.Anche nei ristoranti si fa un buon uso di questo alimento fresco specialmente come arrosto con contorni di patate fritte, verdure o insalatine verdi. Una specialítà piuttosto ricercata è, la scaloppina al vino bianco. Il filetto al forno con patate può essere alternato ad una buona « salsicciata » che consiste nel far cuocere le salsicce al forno dentro un cartoccio (ogni salsiccia un cartoccio) in un tegame insieme alle patate. Per questo piatto si consiglia un contorno abbondante di rape in umido. Per gli antipasti quasi tutti i ristoranti (quando non si usa il pesce) preparano piatti di prosciutto nostrano misto e salame, lonza e formaggio. Si può usare il brodo di maiale magro (molto diluito) anche per fare squisite minestre e zuppe a base di verdure varie come pure minestre in brodo con « scrippelle » che sono frittatine di pasta e uovo servite appunto nel brodo.
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Il piatto che si serviva agli uomini che aiutavano a ridurre il povero maiale in salsicce era « lu ciff e ciaff » e cioé un fritto di peperoni, aglio, ritagli di carne (scarto delle salsicce), lardo, cipolla e patate. Nei ristoranti è difficile trovarlo però vi sono alcuni locali caratteristici che lo preparano su richiesta.Prima di concludere il capitolo sulla carne suina locale vorrei spezzare una lancia in favore di questo alimento che molti a torto credono nocivo alla salute. Il maiale, se usato nella maniera giusta non fa male. Certo che se un sofferente di fegato insiste nel consumare fritti di maiale starà sicuramente male ma se si fa buon uso delle varie parti del suino a seconda delle proprie condizioni di salute avendo sempre cura di cuocere la carne onde evitare la sopravvivenza di eventuali batteri, si mangerà bene e a poco prezzo.
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Tra i prodotti conservati il primo posto spetta al prosciutto nostrano che viene ricercato dai numerosi turisti che viaggiano in Abruzzo anche per... mangiare bene e in questi ultimi tempi ha fatto la sua comparsa il prosciutto di cinghiale nostrano costosissimo ma anche di un gusto squisito. Per ultimo vorremmo citare le popolari « bruschette » che molti ristoranti servono come antipasto; si tratta di fettine di pane tostato con ventricina spalmata sopra.La porchettaUn capitolo a parte merita questa pietanza che almeno due volte all'anno ogni abruzzese prova: a capodanno e durante le feste padronali. In Abruzzo si usa festeggiare la fine dell'anno con abbondanti libagioni a base di arrosti e tra questi « la porchetta » rappresenta uno dei piatti forti. A differenza degli altri piatti a base di maiale, sia fresco che conservato, non ha origini popolari nel senso che fu sempre un piatto prediletto dalle classi più elevate, però in ogni festa padronale era da tutti assaggiato (bastava cento grammi per tutta la famiglia) come si trattasse di un rito.
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L'immagine si riferisce alla copertina di una pubblicazione
sul turismo e la gastronomia abruzzese pubblicata dal sottoscritto negli anni '70
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Anche oggi non è che sia un piatto alla portata di tutti, ma indubbiamente è più accessibile di un tempo. E' bene però precisare che per la sua natura « la porchetta » risulta certamente molto pesante per lo stomaco a causa del grasso che contiene e degli aromi che si devono necessariamente usare per confezionarla. E' consigliabile perciò, rispettare la tradizione ponendola in tavola solo una volta tanto.Si usa confezionare il piatto in diversi modi ma la cottura avviene sempre in un forno a legna. Il maialetto è preferibile sceglierlo tenero e farlo preparare da mani esperte perché bisogna impregnarlo di aromi in tutti gli angoli, dopo averlo ben pulito e liberato delle interiora si inizia l'opera di salagione e « drogaggio » facendo ogni tanto i in piccolo taglio nella carne e infilandovi sale, pepe ed altri aromi. Il sapore della porchetta dipende tutto da questa operazione e dal grado di cottura.
In diverse località, in occasione di feste padronali, si
riuniscono centinaia di « porchettari » (i più bravi sono della provincia di Chieti) e il comitato dei festeggiamenti mette in palio un premio per la migliore porchetta. In queste circostanze i maiali arrosto sono piuttosto grossi e il sapore del piatto varia leggermente. 1 consumatori che si affollano a comprare fette dì porchetta in queste cìrcostanze sono i veri giudici che determinano la vittoria di un venditore o di un altro. Questo piatto si consuma all'aperto, mentre intorno la gente si diverte con musica, canti e balli. Il vino rosso Montepulciano abruzzese scorre copioso e innaffia i palati ardenti per gli aromi dell'artosto.
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Un accorgimento intelligente dei « porchettari » può trasformare la porchetta in un piatto meno pesante per lo stomaco, si tratta di preparare la pietanza dopo aver lessato il maiale. In questo caso la seconda cottura al forno rende commestibile gran parte dell'animale che con la sola cottura al forno tende a perdere molto peso. I « porchettari » lessando il maiale prima di arrostirlo in sostanza realizzano un maggior guadagno e forse fanno meno danno ai malati di stomaco, ma il sapore del piatto risulta decisamente meno gustoso.Per riconoscere la porchetta lessata da quella classica si deve osservare la crosta. Se questa è attaccata alla carne vuol dire che essa è stata prima lessata. La buona porchetta, invece, presenta una crosta dura, croccante e nettamente staccata dalla carne.Carne ovinaLe pecore e l'Abruzzo, purtroppo, fino a qualche anno fa formavano un binomío che ci trascinavamo dietro fin dai tempi delle prime rappresentazioni della “Figlia di jorio “.La nostra Regione era terra di pastori ma questi lavoratori dell'agricoltura erano una minoranza tispetto alle altre categorie. Ora la mentalità corrente comunque non ci ritiene esseri inferiori perché produciamo anche pecore (magari ne producessimo di più) e così la carne di agnello viene richiesta sempre più nei ristorantí abruzzesi. E' bene citare subito i popolari « arrosticini » che il turista di oggi non può fare a meno di provare alle porte di Pescara, sia che venga da Roma che da Sud o da Nord. L'odore caratteristico della carne di pecora che arrostisce sopra i carboni fa parte ormai del colore della periferia delle città abruzzesi.
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La fine dell'agnello tenero è invece al forno con abbondante contorno patate come pure cotto ai ferri con limone e contorno di verdure. E' un píatto che si può trovare più frequentemente nei ristorantí della provincia dell'Aquila perchè in quella zona si registra una produzione ovina di grande proporzione.penuinità del prodotto è assicurata anche dalle favorevoli condizioni commercia della fornitura diretta del prodotto al ristorante da parte delle macellerie e spesso sono di proprietà degli allevatorí. In quasi tutti i paesi dell'Aquilano quando si approssima la Pasqua vi sono vendite straordinarie di agnelli a prezzi vantigiosíssimí. Anche ora che la benzina costa molto la gente della pianura preferisce recarsi personalmente al paese di montagna per acquistare l'agnello di Pasqua anziché corriprarlo dal macellaio sotto casa, non soltanto per ragioni economiche naturalmente, ma anche per il gusto di andare alla fonte del prodotto genuino. In alcune zone l'agnello viene anche soffritto e servito con uovo e limone. Nella provincia di Teramo le interiora di agnello vengono pulite accuratamente e poi cotte e servite insieme a delle foglie di lattuga, mentre in provincia di Pescara si usa fare la « paliata » e cíoé interiora di agnello da latte soffritto e innaffiato con abbonda vino bianco.Il castrato si cucina quasi ovunque ai ferri, ma in alcune zona di montagna si usa cuocerlo insieme a molti aromie al pomodoro e peperone fresco. Ne viene fuori uno spezzatino squisito. Con il ragù di castrato si possono anche condire i maccheroni alla chitarra ed altri tipi di pasta. Il capretto viene quasi sempre ecotto al forno con patate e il suo sapore varia con il variare del pascolo che lo alimenta. L'influenza del tipo di pascolo sul sapore della carne ovina e caprina è notevole. Il pascolo di media montagna per esempio è il più ricercato perché dà all'animale un sapore tenuo. Se l'agnello cresce in una zona marina il suo sapore è molto aspro ma forse più interessante, gastronomicamente parlando. La salsedine conferisce alla carne un aroma particolare. Ma è molto difficile trovare in abruzzo un tipo di ovino che abbia queste particolarità. Spesso l'ovino più comune è quello di media e collina ove è più facile allevare le pecore durante tutto l'anno senza gli sposta menti (la transumanza) dalla montagna alla pianura, di dannunziana memoria. Comunque anche oggi queste « migrazioni » si verificano, anche se in misura ridotta, lungo gli antichi tracciati dei « tratturi » e lungo il corso dei fiumi. Ormai quasi tutti gli allevatori spastano i loro greggi dall'Abruzzo alle Puglie e viceversa con autocarri ben attrezzati.Carne bovinaSul consumo della carne bovina c'è molto da dire, ma sicuramente questo prodotto per la cucina abruzzese, non ha la stessa importanza delle altre carni. Il vitello ha invaso le cucine dell'abruzzo con le sue fettine facili da preparare e con i suoi filetti teneri, ma ha anche un po' falsata la vera caratteristica della nostra gastronomia. Infatti nei ristoranti caratteristici il vitello non rappresenta quasi mai il piatto forte. Le varie elaborazioni degli arrosti provengono da altre cucine o comunque sono evoluzioni della cucina caratteristica abruzzese. Oltre alla preparazione degli arrosti misti alla brace la carne bovina si usa prevalentemente per fare i ragù che sono indispensabili per condire i maccheroni alla chitarra e altri piatti di pasta come i rigatoni, gli gnocchi di patate ecc.
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Il macinato magro serve anche alla preparazione delle lasagne come riempitivo e di solito per confezionare le pallottoline di carne che si fanno bollire nel brodo di pollo o di tacchino. Si usa anche per riempire carciofi, melanzane, peperoni, pomodori ecc., oltre a confezionare polpette rotonde insieme ad aglio e prezzemolo.Le fettine di vítellone si possono anche fare alla pizzaiola con olio, aglio, prezzemolo, pomodoro fresco e orígano, cotti « a crudo », tutti gli incredentì insieme, senza soffriggere. Scaloppine e involtini al sugo sono altri piatti abbastanza comuni oltre al vitello in umido e allo stufato.Animali da cortileIl pollaio era dietro la casa; mia nonna ogni giorno, dopo il pranzo, scendeva la ripida scalinata con i rifiuti del pasto per distribuirli agli animali impazienti. Erano galline e galli che io chiamavo per nome come fossero gatti o cani. Quando uno di loro doveva finire in padella io protestavo energicamente ma poi mi rassegnavo al corso degli eventi: « ... è la vita mi diceva sorridendo la nonna - loro sono nati per questo ». Qualche volta allevammo anche papere e anitre gigantesche ma quasi mai i tacchini perché erano « difficili ». Il primo atto dell'allevamento domestico era « la vilocche » e cioé la scelta di una gallina che doveva covare le uova tutti fecondati dai galli del pollaio. Quando era giunto il momento la gallina veniva prelevata e con tutte le cure appartata dal pollaio.
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La cova di ventun giorni avveniva in una cesta di canne, confezionata dalle m esperte dei contadini locali. Durante tutto il tempo di cova la gallina mangiava pochissimo ma beveva molto per alimentarsi. Dopo tre settimarie avveniva il miracolo, la nascita dei pulcini. Quasi tutte le case della borgata avevano il loro piccolo o grande pollaio e così vi era una riserva di alimento in quasi tutte le famiglie. Le domeniche e le feste più importanti, l’alimento speciale era costituito da polli, conigli ecc. Nei giorni feriali era molto difficile che in una famiglia media si mangiasse pollo o altra specie di carne. Le galline erano riservate alle puerpere, ai malati e alle persone convalescenti. Queste erano in linea di massima le abitudi gastronomiche della maggior parte degli abruzzesi fino all'avvento della seconda guerra mondiale. La carne più usata, quindi, insieme al maiale, era il pollo ruspante. Ma come si è trasformata la società contadina così si sono trasformate le abitudini gastronomiche e si è avuta in seguito una notevole diffusione della carne di vitello con il proliferate delle macellerie, per la durata di un ventennio. Però già da una diecina di anni addietro il pollame è tornato di nuovo sulle mense degli abruzzesi mentre i polli ruspanti sono sempre più ricercati dai buongustai che la mattina affollano il mercato dei piccoli coltivatori diretti.
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Nei ristoranti, ovviamente si sono sviluppate le varietà di piatti a base di pollo a seconda della zona e della fantasia del cuoco. Anche il tacchino l'anatra, il piccione arrosto, il coniglio nella peperonata ecc., sono diventati i cavalli di battaglia di diversi ristoranti tipici. A Teramo, per esempio, si cucina il tacchino alla canzanese che pare sia di fama interregionale anche se personalmente ritengo che il piatto sia troppo elaborato per non risultare di difficile confezione. Nella cucina abruzzese è forse l'unico piatto che necessita di un tempo elevatissimo di cottura, circa otto ore. Il risultato, però, quando il cuoco è veramente bravo, è quasi sempre sorprendente perché i vari aromi e i vari sapori del tacchino si condensano in pochissimo spazio aprendosi improvvisamente al contatto del palato.
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Una specialità che merita di essere menzionata è la « papera muta » nelle sue diverse versioni che in questi ultimi tempi è ritornata in voga in Abruzzo. Questa specie, a differenza dell'anitra comune, non risulta grassa e quindi non richiede particolari difficoltà di cottura. Quando il ristorante è situato in un luogo appartato e agreste (agriturismo) i proprietari usano allevare alcuni animali da cortile per dimostrare ai clienti che il prodotto è veramente genuino. Abbiamo visitato diversi di questi locali e ne abbiamo ricevuto una buona impressione poiché queste idee sono sempre stimolanti specialmente per i turisti che provengono da altre regioni e sono ben disposti verso l'Abruzzo. Altri locali. invece, mettono in mostra l'orto da dove provengono le verdure della« casa » oppure la vigna da dove proviene il vino del locale.Il brodoNon appena un povero Cristo ha un lieve malanno la moglie abruzzese gli propone... « ... oggi ti faccio un bel brodino di gallina... » oppure un po' di bollito di manzo. Naturalmente si tratta di un alimento sostanzioso e allo stesso tempo molto leggero che può essere digerito con facilità da qualsiasi persona, ma le versioni più elaborate sono dei veri piatti forti di cui diversi locali vanno fieri.Il brodo di tacchino con pallottoline di carne e con spinaci, il brodo di pollo con l'uovo montato, il brodo di manzo con frittatine oppure con « scrippelle » ecc. ecc. sono dei piatti che possono essere consumati benissimo a cena come primo oppure a pranzo prima della pasta asciutta. Il brodo viene anche usato per diluire pietanze durante la cottura come risotti, ragù, ecc.Per preparare un buon brodo occorrono diverse ore di cottura e dosi ben equilibrate di aromi appropriati.Famoso è il piatto che si usa servire nelle feste prima della pasta, la famosa “stracciatella” ,realizzata con verdura, uovo e formaggio in brodo.
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Monday, May 22, 2006

COME SI MANGIA OGGI NELLA TERRA DEL CID CAMPEADOR


Antiche tradizioni culinarie rischiano di scomparire*** Anche gli spagnoli si stanno allontanando dalla cucina mediterranea tradizionale***

da Valencia Romano Di Bernardo

Non solo in Italia, ma anche nella Spagna della grande tradizione gastronomica, oggi si tende ad abbandonare gli usi culinari antichi sia nelle cucine casalinghe che in quelle dei ristoranti.
In poche parole si sta abbandonando la sana cucina Mediterranea.
Mi sto rendendo conto di questa realtà ora che sono tornato a Valencia per un mese ed ho un po’ più tempo del solito per dedicarmi agli articoli su argomenti di culinario facilitato anche dal fatto che in questa bella città spagnola ho un esercito di parenti (tra cognati e nipoti una trentina in tutto) e dal ricordo di mia suocera che mi insegnò, dal lontano 1974 fino agli anni ’80, i segreti della gastronomia popolare di questa terra meravigliosa.
Allora, pur vivendo nel clima non certo sereno di una dittatura come quella franchista, gli spagnoli avevano conservato gelosamente le loro antiche tradizioni e quindi oltre al culto per la famosa “Paella Valenciana”, per la “Fallas”, per la corrida ecc., nella gente comune c’era la consapevolezza che si dovesse prima o poi girare pagina ma che comunque mai si sarebbero abbandonate le sane abitudini alimentari.

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Ora la gente in casa mangia molto all’americana, frequenta locali cinesi oppure sedicenti ristoranti italiani dai nomi accattivanti come “Bella Capri”, “Capriccio Italiano” e via dicendo dove di italiano trovi soltanto il vago ricordo di un “recorrido” turistico fatto dal proprietario nel nostro Paese.
La “Paella” si cucina solo “nel campo” o quando si va a passare il fine settimana nella seconda casa in collina o al mare che qui chiamano “Chalett”.
Le giovani generazioni preferiscono la partita di calcio alla corrida (ciò costituisce indubbiamente una scelta civile) ma si curano anche poco del loro ricco patrimonio di tradizioni culinarie.
E’ pur vero, però, che le esigenze igieniche moderne hanno cancellato certi piatti antichi pericolosi per la salute pubblica, come, ad esempio quelli a base di sangue animale fresco raccolto nei mattatoi e venduto, fino a pochi anni fa, nei mercati cittadini.

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In sostanza si nota anche qui, come del resto in tutta Europa, un progressivo sfaldamento delle abitudini alimentari dovuto, indubbiamente, alle esigenze della vita moderna. I soliti problemi socio-economici che abbiamo tutti, in senso globale, stanno trasformando il nostro modo di alimentarci.
Direi certamente delle banalità se elencassi tutte le cause di questa progressiva trasformazione gastronomica che renderà, tra pochi anni, molto difficile potersi ritrovare a pranzo o a cena, tutti insieme in famiglia, come in passato, in Spagna, in Italia e nel resto del mondo.
L’unico piatto sicuramente Mediterraneo che resiste e che, anzi, seguita a diffondersi anche qui in Spagna è la PIZZA, apprezzata e diffusa in tutta la penisola Iberica, il Portogallo compreso.

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MA CI SONO ANCORA TANTI SPAGNOLI, COME AURELIO DONATE IL QUALE CI INSEGNA COME CONFEZIONARE UNA SQUISITA “PAELLA” al profumo di rosmarino

da Valencia Romano Di Bernardo

Incominciò a radunare i rami di pino sparsi dal vento dentro il giardino per allestire il “paellero”, cioè il posto dove cucinare la sua Paella all’aperto; Aurelio Donate è uno di quegli spagnoli che il sabato lasciano la città e si rifugiano nel “chalet” di campagna. Lui ha appreso l’arte della cucina locale dagli anziani e, a differenza di tanti suoi coetanei, vuole continuare le tradizioni . In altri termini è convinto di essere uno specialista di questo piatto famoso entrando spesso in conflitto con le donne della sua famiglia che, a suo dire, aggiungono alla pietanza ingredienti che non fanno parte della ricetta autentica, quella che si pratica nella Comunità Valenciana, la terra dove è nata la prima PAELLA.
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Aurelio appicca il fuoco e i rami di pino cominciano a scoppiettare spargendo intorno un acuto odore di bosco mediterraneo, anche se ci troviamo a 350 metri di altitudine vicino alla città di LLIRIA, nella Comunità Valenciana.
L’olio extravergine nella paella è già abbastanza caldo per accogliere la carne costituita da pezzi di pollo, coniglio e alcune costatine di maiale (foto 1). Il soffritto verrà usato come base per la confezione del piatto che durerà tre ore. Quando la carne è appena indorata il “cocinero”versa nella padella i faggiolini piatti (qui vengono chiamati “judias”), i “garrofons”, che sono grossi fagioli bianchi secchi, spicchi d’aglio e cipolla.
Dopo almeno mezz’ora, di cottura in abbondante olio, Amparo, la moglie di Aurelio versa nella padella una manciata di pomodoro fresco a pezzetti e quindi aggiunge il brodo di carne di pollo precedentemente preparato. Non appena il recipiente bolle viene aggiunto un rametto di rosmarino e una quantità adeguata di zafferano per dare sapore e colore al liquido in cui verrà cotto il riso. Come segno di ospitalità, a questo punto, mi viene offerto il privilegio di assaggiare il brodo per giudicare il sapore del brodo. Sentenzio che è giusto di sale.(foto 2).
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Intanto Amparo prepara il riso (un bicchiere ogni due commensali) che sarà aggiunto dopo circa un’ora di vivace bollore per far si che il brodo prenda il sapore della carne e della verdura.
Intanto Aurelio si incarica di mantenere il fuoco sempre vivo dosando la quantità di legna sotto il treppiede.
Dopo quasi tre ore dall’inizio della preparazione la paella è pronta per accogliere l’elemento base: il riso (foto 3).
D’ora in poi bisogna stare molto attenti a contenere il fuoco nella giusta misura per evitare che il riso si attacchi troppo al fondo del recipiente. Questa è la fase più importante e delicata nella preparazione della “paella”. Basta un minuto di fuoco eccessivo, oppure un eccesso di brodo, per rovinare tutto.

Aurelio Donate vuole conservare a tutti i costi le buone
abitudini dei valenciani legati alle antiche tradizioni
In circa 25 minuti, riducendo sempre gradatamente il fuoco, il brodo si ritira e la paella è pronta (foto 4). La si lascia “riposare” per circa 10 minuti e poi si fanno le porzioni.
Sono le ore 16.00 quando iniziamo a mangiare. In tal modo abbiamo riunito il pranzo con la cena. --------------- La foto 4 mostra Aurelio e Amparo con il loro capolavoro

Questi ed altri interessanti articoli nel sito www.pescaraonline.net diretto da Romano Di Bernardo

Thursday, May 18, 2006

BRODETTO ALLA PESCARESE



di Romano Di Bernardo


La triglia, “lu rusciole”in dialetto pescarese, è uno dei pesci più versatili, nel senso che può essere cucinato in tanti modi mantenendo sempre quel suo sapore che ricorda lontanamente gli umori della terra. Per questa sua caratteristica non è gradita da tutti. In una famiglia troverete sempre qualcuno che…non mi piace perché sa di terra oppure…mi da fastidio quel sapore diverso dagli altri pesci.
Meno male, dico io…del resto se “tutti i passeri conoscessero il grano …” con quel che segue.
Per fortuna ci sono gli amatori della triglia. Qualche volta mi è passata per la mente addirittura l’idea di fondare un Club “Amici della triglia”.
La triglia è buona arrosto, in brodetto, fritta, al guazzetto, al cartoccio ed è presente in tutte le stagioni.

Oggi vi presento un brodetto di sole triglie con l’aggiunta di due gallinelle per armonizzare il sapore della pietanza e, vi confesso….ho speso solo 5 euro.

Preparate il sughetto semplice con olio, aglio, pomodoro e prezzemolo e adagiatevi le gallinelle quando il pomodoro comincia a sobbollire. Dopo soli 5 minuti aggiungete le triglie e continuate la cottura per altri 7 minuti.

Non mi resta che augurarvi BUON APPETITO non senza un pizzico di biasimo per chi disprezza questo pesce.


Tante altre ricette troverete sul sito www.pescaraonline.net

cucina marinara, contadina, montanara




Arrosticini.....ossia pecora, pecora, e ancora pecora

di Rodiber
I meno giovani ricorderanno gli sfottò e le maledizioni dell’Italia “nordista” nei confronti di chi abitava la terra dei tratturi durante i primi anni della televisione quando nelle lunghe interruzioni che frequentemente massacravano i programmi apparivano sugli schermi televisivi greggi di candide pecore con il sottofondo musicale di uno stupido carillon. Insulsa musichetta che avrebbe dovuto trasmettere agli inferociti telespettatori il seguente messaggio:”STATE CALMI, IMMERGETEVI NELLA BUCOLICA ATMOSFERA DEI PASCOLI ABRUZZESI E......”. Poi, dopo interminabili attese usciva la scritta “Riprendiamo la trasmissione scusandoci per la interruzione”.
Insomma l’Abruzzo era il simbolo del mondo della pastorizia e noi eravamo ancora legati alla pecora intesa come fonte di vita e cioè: lana, formaggio, concime naturale per i campi e.....per ultimo quella schifosissima carne che puzzava di cattiva erba fermentata.

Gli anni passano, la TV diventa colorata e abbandona le nostre pecore nell’oblio della storia contemporanea basata sulle immagini.
Ma... che succede ? La vecchia e bistrattata pecora risorge a nuova vita. Non usa più il “tratturo antico” di dannunziana memoria per spostarsi dai monti al mare. Viaggia in camion e trova stazzi e pascoli accoglienti in pianura, in collina e in montagna.

Ora l’odore sgradevole di erba cattiva fermentata della sua carne sta conquistando quella parte d’Italia che mezzo secolo fa la schifava.
Grazie all’inventiva degli abruzzesi la pecora ora è ricercata per i suoi “arrosticini”, parola sconosciuta che tradotta in italiano potrebbe significare semplicemente “spiedini di carne di pecora”.

Se intendete prepararli e arrostirli vi consiglio di servirvi di un esperto. Bisogna comunque tener presente alcune regole fondamentali:
- la carne deve essere scelta e tagliata da un esperto macellaio (in Abruzzo ce ne sono molti);
- usate l’apposita “fornacella” allungata e fate consumare bene il carbone prima di sistemarvi gli arrosticini ;
- non fateli bruciare e regolatevi bene per le spruzzate di sale. Non esagerate altrimenti li digerirete male.

Visita la scheda "GASTRONOMIA" sul sito www.pescaraonline.net